Agli inizi degli anni Trenta del secolo
scorso il Ghebì, il palazzo del nobile Nasibù Zamanuel svetta sontuoso nel
centro di Addis Abeba. Circondato
da un parco di cinquantamila metri, con alberi di alto fusto e piante
ornamentali fatte giungere da ogni parte del mondo, il Ghebì è composto da
un’infinità di camere, elegantemente arredate con mobili in stile Luigi XVI e
Chippendale, porcellane di Sèvre, immensi arazzi di Beauvais. Ottanta
maggiordomi, domestici, cuochi e giardinieri provvedono alla cura della casa,
sotto lo sguardo vigile del degiac Nasibù, bello come un dio con i suoi 185
centimetri di statura, il fisico da atleta, il volto attraente e sereno, le
sgargianti divise da generale.
Nella vita
del degiac, tutto sembra tingersi di prodigioso e fiabesco: da come ha
impalmato la giovanissima Atzede Mariam Babitcheff dopo una gara sfrenata
nell’ippodromo di Janehoy-meda alla presenza del reggente, ras Tafari Maconnen,
a come l’ha condotta in pellegrinaggio in cima al monte Managhescia, dove il
santo eremita Abba Wolde Mariam ha predetto alla sposa la nascita di ben cinque
figli.
Un giorno
di ottobre del 1935, tuttavia, la bella fiaba termina bruscamente. Per ordine
di Benito Mussolini, le forze armate italiane invadono l’Etiopia da nord al
sud, senza alcuna dichiarazione di guerra.
Il degiac
Nasibù combatte valorosamente per difendere la sua civiltà, quell’antica
civiltà coptortodossa che fa dell’Etiopia una terra cristiana nel cuore
dell’Africa. Le forze sono però troppo impari, e il conflitto segna la fine
dell’Impero d’Etiopia e dello splendore dei Nasibù.
Il 21
giugno del 1936, è arrestato Ivan Babitcheff, il suocero di Nasibù. Il 19
ottobre, il degiac si spegne in una clinica di Davos. Nei mesi successivi tutti
i Nasibù sono costretti all’esilio.
A più di
sessant’anni dagli avvenimenti, Martha Nasibù, figlia del degiac Nasibù,
racconta l’incredibile vicenda della sua famiglia condotta in Italia sul finire
del 1936 e mantenuta in cattività sino all’agosto del 1944. Otto anni di esilio
nei luoghi di «villeggiatura» di Mussolini. Otto anni di esilio per la sola
colpa di essere moglie e figli del degiac Nasibù Zamanuel, che si era
comportato in guerra con estrema correttezza, non certo ricambiata dal «viceré»
Rodolfo Graziani. Preziosa testimonianza storica, il libro illumina il mondo
dell’aristocrazia etopica «in bilico fra le suggestive eredità del feudalesimo
e le forti aspirazioni alla modernità»
Angelo Del
Boca
No comments:
Post a Comment